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La leggenda di Momotaro

Uno degli omaggi più celebri di Eiichiro Oda nella sua opera One Piece è quella sulla leggenda di Momotaro. Lavorando ad un articolo con i fiocchi (che vi presenterò nei prossimi giorni) mi son domandato: "perchè non farla conoscere a tutti per bene?"

E allora…

 

BIANCHI! NERI! ASIATICI!
RIUNITEVI TUTTI AL COSPETTO DEL PANDA!!!

 

LA LEGGENDA DI MOMOTARO:

Tanto tanto tempo fa in Giappone c’erano un vecchio e una vecchia. Erano contadini e dovevano lavorare sodo per guadagnarsi il riso quotidiano.

L’uomo era solito andare a tagliare erba per i contadini dei dintorni e mentre lui era fuori casa, sua moglie si occupava delle faccende domestiche e lavorava nel loro piccolo campo di riso.
Un giorno il vecchio si recò sulle colline come al solito per tagliare erba e la vecchia andò al fiume per lavare un po’ di panni.

Era quasi estate e il paese verdeggiante offriva una vista splendida quando i due uscirono di casa per andare a lavorare. L’erba sulle rive del fiume sembrava un velluto del colore dello smeraldo e i salici lungo l’acqua stavano scuotendo via i loro soffici fiocchi.

Il venticello soffiava e increspava la superficie dell’acqua formando piccole onde e sfiorando le guance dei due vecchi sposi che, per qualche ragione che non sapevano spiegare, quella mattina si sentivano veramente felici.

Infine la vecchia trovò un posto gradevole sulla riva del fiume e posò la cesta. Poi si mise al lavoro per lavare i panni: li prendeva dalla cesta uno alla volta, li lavava nel fiume e li strofinava sulle rocce. L’acqua era limpida come cristallo, e si potevano vedere i pesciolini che nuotavano avanti e indietro e i ciottoli sul fondo.

Mentre la donna era occupata a lavare, si avvicinò una grande pesca trasportata dalla corrente. La vecchia alzò gli occhi dal suo lavoro e vide quel grande frutto. Aveva sessant’anni, ma fino a quel momento non aveva mai visto una pesca così grande in vita sua.

“Quella pesca dev’essere semplicemente squisita!” disse fra sé. “Devo cercare di prenderla e portarla a casa a mio marito”.

Allungò le braccia per cercare di afferrarla, ma era completamente al di fuori della sua portata. Si guardò intorno cercando un bastone, ma non ce n’era nessuno in vista, e se fosse andata a cercarne uno, avrebbe perduto la pesca.

Fermandosi un attimo a pensare sul da farsi, si ricordò di una vecchia filastrocca magica. Cominciò a battere le mani al ritmo in cui la pesca scendeva lungo la corrente e nel frattempo cantò questi versi:

«L’acqua lontana è amara / l’acqua vicina è dolce / lascia l’acqua lontana / vieni nell’acqua dolce».

Strano a dirsi, non appena cominciò a ripetere questa filastrocca, la pesca a sua volta cominciò ad avvicinarsi sempre più alla riva su cui si trovava la vecchia e alla fine si fermò proprio davanti a lei, tanto che fu in grado di raccoglierla. Ne fu felicissima. Non riusciva a continuare il suo lavoro, talmente era contenta ed eccitata. E così, ripose tutti i panni nella cesta di bambù, se la mise sulle spalle e con la pesca in mano si affrettò verso casa.
Non vedeva l’ora che tornasse il marito. Finalmente, quando il sole stava tramontando, il vecchio tornò a casa con un grande fascio di erba sulla schiena, tanto grande che quasi lo nascondeva, e la moglie faceva fatica a vederlo. Aveva un aspetto stanchissimo e si appoggiava alla falce come a un bastone, piegandosi su di essa mentre camminava.

Non appena la vecchia lo vide, lo apostrofò:

«O Fii San [onorevole vecchio]! Oggi ho dovuto aspettare un sacco di tempo che tu tornassi a casa!»

«Cos’è questa storia? Perché sei così impaziente?» chiese il vecchio meravigliandosi di quella insolita eccitazione. «È successo qualcosa mentre non c’ero?»

«Oh no!» rispose la vecchia, «non è successo niente, solo ho trovato un bel regalo per te».

«Questa è una buona cosa», disse il vecchio. Poi si lavò i piedi in una bacinella d’acqua e si diresse verso la veranda.

Allora la vecchia corse nella piccola cucina e tirò fuori dalla credenza la grande pesca. Sembrava ancora più grande di prima. La portò al marito e disse:

«Guarda! Hai mai visto una pesca più grande in vita tua?»

Quando il vecchio guardò la pesca, rimase sbalordito e disse:

«Questa è veramente la più grande pesca che abbia mai visto! Dove l’hai comprata?»

«Non l’ho comprata», rispose la vecchia. «L’ho trovata nel fiume mentre stavo facendo il bucato».

E gli raccontò tutta la storia.

«Sono davvero contento che tu l’abbia trovata. Adesso mangiamola, sono affamato», disse l’O Fii San.

Estrasse il coltello e, messa la pesca su una tavola, stava per tagliarla quando, incredibile a dirsi, la pesca si spaccò in due da sola e una voce limpida disse:

«Aspetta, vecchio!» e uscì un grazioso bimbetto.

Il vecchio e la moglie furono talmente sbalorditi da ciò che vedevano, che caddero a terra. Il bambino parlò di nuovo:

«Non abbiate paura. Non sono un demone né una strega. La verità è questa. Gli dei hanno avuto pietà di voi. Ogni giorno e ogni notte vi lamentavate di non avere bambini. Il vostro lamento è stato ascoltato e mi hanno mandato perché sia il figlio della vostra vecchiaia!»

Il vecchio e la moglie, all’udire questo, furono molto felici. Si erano lamentati giorno e notte per la pena di non avere bambini che li sostenessero nella vecchiaia e adesso che la loro preghiera era stata esaudita, erano così pieni di felicità che non stavano più nella pelle. Dapprima il vecchio prese in braccio il bambino, poi la donna fece lo stesso, e lo chiamarono Momotaro, ossia Figlio di una Pesca, perché era uscito da una pesca

Gli anni passarono veloci e il bambino arrivò all’età di quindici anni. Era più alto e più forte di tutti gli altri ragazzi, aveva un cuore coraggioso ed era molto saggio malgrado la giovane età. Quando lo guardavano, i due vecchi sposi provavano un immenso piacere, perché era proprio come loro pensavano che dovesse essere un eroe.

Un giorno Momotaro andò dal padre adottivo e gli disse con solennità:

«Padre, per una insolita circostanza siamo diventati padre e figlio. La tua bontà verso di me è stata più grande dell’erba che cresce sulla montagna e che ogni giorno ti ho aiutato a tagliare, e più profonda del fiume in cui mia madre lava i panni. Non so cosa fare per ringraziarti abbastanza».

«Perché ringraziarmi?» rispose il vecchio. «È naturale per un padre allevare il proprio figlio. Quando sarai più vecchio ti prenderai cura di noi a tua volta, e quindi tra noi nessuno ci avrà guadagnato o perso: saremo pari. Mi stupisce molto che tu mi ringrazi così!» e il vecchio sembrò infastidito.

«Spero che sarai paziente con me», disse Momotaro, «ma prima che io cominci a ricambiare la tua bontà verso di me, devo rivolgerti una preghiera che spero esaudirai prima di ogni altra cosa».

«Farò qualunque cosa desideri, perché tu sei differente da tutti gli altri ragazzi!»

«Allora concedimi di partire subito!»

«Che stai dicendo? Vuoi abbandonare i tuoi vecchi genitori e andartene dalla casa paterna?»

«Se mi lasci andare, ti assicuro che ritornerò!»

«Dove vuoi andare?»

«Certo troverai strano che voglia andarmene», disse Momotaro, «perché non ti ho ancora detto il motivo. Lontano da qui, nel nordest del Giappone, c’è un’isola in mezzo al mare. Quell’isola è il covo di una banda di orchi. Ho udito spesso parlare di come invadono la nostra terra, uccidono la gente e la derubano portando via tutto quello che trovano. Non solo sono molto crudeli, ma sono infedeli all’Imperatore e disobbediscono alle sue leggi. E per di più sono cannibali, perché uccidono e mangiano i poveretti che hanno la disgrazia di cadere nelle loro grinfie. Sono esseri odiosi. Devo andare a combatterli per annientarli e riportare indietro il bottino che hanno saccheggiato nel paese. È per questo che voglio andar via per un po’ di tempo».

Il vecchio fu molto sorpreso udendo tutto questo da un ragazzo appena quindicenne. Pensò che la cosa migliore fosse lasciarlo andare. Era forte e coraggioso, e inoltre il vecchio sapeva che non era un ragazzo comune, perché era stato inviato come un dono del Cielo, e quindi era sicuro che gli orchi non avrebbero potuto fargli del male.

«Quello che dici è molto interessante, Momotaro», disse il vecchio. «Non mi opporrò alla tua decisione. Puoi andare, se lo desideri. Vai sull’isola quando vuoi, distruggi quegli orchi e riporta la pace nel paese».

«Ti ringrazio per la tua gentilezza», disse Momotaro e cominciò a prepararsi per la partenza quel giorno stesso. Era pieno di coraggio e non sapeva cosa fosse la paura.

Il vecchio e la moglie si misero subito al lavoro per pestare del riso nel mortaio della cucina e preparare dei dolci da dare a Momotaro per il viaggio.

Infine i dolci furono pronti e anche Momotaro fu pronto a partire per il suo lungo viaggio.

La partenza è sempre triste. Lo fu anche questa volta. Gli occhi dei due vecchi erano pieni di lacrime e la loro voce tremava quando dissero:

«Sii prudente e veloce. Ti aspettiamo di ritorno vincitore!»
Momotaro, pur essendo sicuro che sarebbe ritornato al più presto, era molto dispiaciuto di lasciare i suoi vecchi genitori, perché pensava quanto si sarebbero sentiti soli durante la sua assenza. Ma si fece animo e si congedò:

«Ora vado. Abbiate cura di voi mentre sono via. Addio!» E uscì di casa in fretta.

Momotaro si affrettò per la sua strada fino a mezzogiorno.

Cominciava a sentire un certo appetito, per cui aprì il suo sacchetto, tirò fuori uno dei dolci di riso e si mise a sedere sotto un albero a lato della strada. Mentre era intento a consumare la colazione, un giovane e grosso cane uscì di corsa dall’erba alta. Si piazzò davanti a Momotaro e mostrando i denti disse con ferocia:

«Sei molto maleducato ad attraversare il mio territorio senza prima chiedermi il permesso. Se mi dai tutti i dolci che hai nel sacchetto, ti lascerò andare, altrimenti ti ucciderò a forza di morsi!»

Momotaro si limitò a ridere sprezzante:

«Che stai dicendo? Non sai chi sono io? Sono Momotaro e sto andando a sconfiggere gli orchi nella loro isola fortezza nel nordest del Giappone. Se cerchi di fermarmi, ti taglierò in due dalla testa alla coda!»

Il comportamento del cane cambiò immediatamente. Mise la coda tra le gambe e, avvicinatosi, si inchinò fino a toccare terra con la fronte.

«Cosa sento? Il nome di Momotaro? Tu sei proprio Momotaro? Ho udito spesso parlare della tua grande forza. Non sapevo chi fossi, per questo mi sono comportato così scioccamente. Vuoi perdonare la mia scortesia? Stai davvero andando ad attaccare l’isola degli orchi? Se prenderai con te un compagno rozzo come me, te ne sarò molto riconoscente».

«Se vuoi venire, ti prenderò con me», disse Momotaro

«Grazie!» disse il cane. «Quando viaggio mi viene molta fame. Mi daresti uno dei dolci che porti con te?»

«Questi sono i migliori dolci del Giappone», disse Momotaro. «Non posso darne via uno intero. Te ne darò metà».

«Grazie!» disse il cane afferrando il pezzo di dolce che Momotaro gli aveva gettato.

Poi Momotaro si mise in cammino e il cane lo seguì.

Camminarono a lungo su per i monti e giù per le valli. Mentre stavano procedendo l’uno accanto all’altro, un animale scese da un albero poco distante da loro. La creatura si avvicinò subito a Momotaro e disse:

«Buongiorno, Momotaro! Posso venire con te?»

Il cane, geloso, rispose:

«Momotaro ha già un cane che lo accompagna. A che gli serve una scimmia come te in battaglia? Stiamo andando a combattere gli orchi! Vattene!»

Il cane e la scimmia cominciarono a litigare e mordersi, perché questi due animali si odiavano da sempre.

«Non litigate adesso!» disse Momotaro mettendosi fra i due. «Aspetta un attimo, cane!»

«Non è dignitoso per te avere al tuo seguito una creatura simile!» disse il cane.

«E tu che ne sai?» chiese Momotaro, e spinto da parte il cane, disse alla scimmia: «Chi sei?»

«Sono una scimmia che vive tra queste colline», rispose la scimmia. «Ho sentito parlare della tua spedizione all’isola degli orchi e sono qui per venire con te. Niente mi farebbe piacere quanto seguirti!»

«Vuoi veramente venire all’isola degli orchi e combattere al mio fianco?»

«Certo», rispose la scimmia.

«Ammiro il tuo coraggio», disse Momotaro. «Tieni. Questo è un pezzo dei miei dolci di riso. Andiamo!»

E così la scimmia si unì a Momotaro.

Il cane e la scimmia non andavano d’accordo. Si apostrofavano aspramente tutte le volte che si trovavano vicini e avevano un gran desiderio di azzuffarsi. Questo irritava moltissimo Momotaro, tanto che a un certo punto mandò avanti il cane con uno stendardo e mise la scimmia alla retroguardia con una spada, mettendosi a sua volta fra i due con un ventaglio da guerra, che è fatto di ferro.

Dopo un po’ arrivarono in un grande campo. Qui un uccello scese in volo e si posò a terra proprio davanti al gruppetto. Era il più bell’uccello che Momotaro avesse mai visto. Il suo corpo era coperto da cinque differenti strati di piume e in testa aveva un ciuffo scarlatto.

Il cane si lanciò subito contro l’uccello cercando di afferrarlo e di ucciderlo. Ma l’uccello tirò fuori gli artigli e volò sulla coda del cane, e i due cominciarono a lottare duramente.

Quando Momotaro vide tutto questo, non poté fare a meno di ammirare l’uccello: dimostrava molto vigore nella lotta. Sarebbe stato certo un buon combattente.

Momotaro si avvicinò ai due contendenti, e trattenendo il cane da dietro, disse all’uccello:

«Stai intralciando il mio viaggio. Arrenditi subito e ti porterò con me, altrimenti dirò a questo cane di staccarti la testa a morsi!»

Subito l’uccello si arrese e pregò di unirsi alla compagnia di Momotaro.

«Non so come scusarmi per aver attaccato briga con il cane, tuo servitore, tranne il fatto che non lo sapevo. Non sono che un povero uccello di nome fagiano. È molto generoso da parte tua perdonare la mia maleducazione e portarmi con te. Permettimi di seguirti dietro il cane e la scimmia».

«Mi complimento con te per esserti arreso subito», disse Momotaro, sorridendo. «Vieni e unisciti a noi nella spedizione contro gli orchi».

«Hai intenzione di prendere con noi anche quell’uccello?» chiese il cane interrompendolo.

«Perché mi fai una domanda così inutile? Non hai sentito cosa ho detto? Prendo l’uccello con noi perché mi va di farlo!»

«Uff!» sbuffò il cane.

Allora Momotaro si alzò e ordinò:

«Adesso dovete ascoltarmi bene tutti. La prima cosa necessaria in un esercito è l’armonia. È saggio quel detto: “Un vantaggio sulla terra è meglio di un vantaggio in cielo”. L’unione tra noi è più importante di qualunque guadagno. Se non siamo in pace fra noi, non sarà facile sconfiggere il nemico. Da questo momento voi tre, cane scimmia e fagiano, dovete essere amici e pensarla allo stesso modo. Il primo che si azzarda a cominciare un litigio sarà abbandonato sul posto!»

I tre promisero di non litigare. Il fagiano era entrato a far parte del seguito di Momotaro e ricevette la sua metà di dolce.

Tanta era l’influenza di Momotaro, che i tre diventarono grandi amici e proseguirono velocemente con lui come capo.

Marciando rapidi un giorno dopo l’altro, alla fine giunsero sulle spiagge del Mare del Nordest. Non c’era niente da vedere fino all'orizzonte: neppure la traccia di un’isola. Il silenzio era rotto soltanto dalle onde sulla spiaggia.

Il cane, la scimmia e il fagiano durante il viaggio tra monti e valli avevano acquistato molto coraggio, ma non avevano mai visto il mare prima di allora e per la prima volta da quando erano partiti si sentivano disorientati e si guardavano tra loro in silenzio. In che modo avrebbero attraversato il mare per arrivare all’isola degli orchi?

Momotaro si accorse subito che erano atterriti alla vista del mare e per metterli alla prova parlò con voce alta e dura:

«Perché esitate? Avete paura del mare? Che vigliacchi! Non posso portare con me creature così paurose per combattere gli orchi. Sarà meglio che ci vada da solo. Andatevene subito tutti!»

I tre animali furono colti di sorpresa da questo duro rimprovero e si aggrapparono alle maniche di Momotaro supplicandolo di non mandarli via.

«Per favore, Momotaro!» disse il cane.

«Siamo venuti da tanto lontano!» disse la scimmia.

«È inumano abbandonarci così!» disse il fagiano.

«Non abbiamo assolutamente paura del mare», disse ancora la scimmia.

«Per favore, tienici con te», disse il fagiano.

«Fallo, ti prego», aggiunse il cane.

Avevano ripreso un po’ di coraggio, per cui Momotaro disse:

«E va bene, vi riprenderò con me, ma state attenti!»

Allora Momotaro costruì una piccola imbarcazione, e salirono tutti a bordo. Il vento e le condizioni atmosferiche erano favorevoli e la nave attraversò il mare come una freccia. Era la prima volta che andavano per mare, e in un primo momento il cane, la scimmia e il fagiano furono impauriti dalle onde e dal rollio della barca, ma un po’ alla volta si abituarono all’acqua e ridiventarono allegri. Tutti i giorni passeggiavano sul ponte della loro piccola nave e cercavano impazienti di avvistare l’isola degli orchi.

Quando erano stufi, si raccontavano a vicenda le rispettive prodezze di cui andavano fieri, e giocavano insieme. Momotaro si divertiva moltissimo ad ascoltare i tre animali e a osservare i loro strani comportamenti, e così dimenticava che la strada era lunga e che era stanco del viaggio e dell’inattività. Moriva dalla voglia di mettersi all’opera e di uccidere i mostri che avevano fatto tanto soffrire il suo paese.

Poiché il vento era favorevole e non incapparono in tempeste, il viaggio della nave fu veloce, e un giorno, mentre il sole era più brillante, la vista della terra ricompensò i quattro che stavano di vedetta sulla prua.

Momotaro capì subito che quanto vedevano era la roccaforte degli orchi. In alto sulla costa a strapiombo, affacciato sul mare, c’era un grande castello. Ora che la sua impresa era a portata di mano, si immerse in profondi pensieri con la testa piegata sulle mani e cercò il modo migliore di cominciare l’attacco. I suoi tre compagni lo guardavano in attesa di ordini. Alla fine chiamò il fagiano:

«È un grande vantaggio averti con noi», disse Momotaro all’uccello, «perché hai buone ali. Vola subito fino al castello e sfida gli orchi al combattimento. Noi ti seguiremo».

Il fagiano obbedì e volò via dalla nave sbattendo allegramente le ali nell’aria. Raggiunse l’isola e si posò sul tetto al centro del castello, dicendo a voce alta:

«Voi tutti, orchi, ascoltatemi! Il grande generale giapponese Momotaro è venuto per combattere con voi e per impadronirsi del vostro castello. Se volete salvarvi la vita, arrendetevi subito, e in segno della vostra sottomissione dovrete spezzare le corna che avete sulla fronte. Se non vi arrenderete subito, preparatevi a combattere. Noi, il fagiano, il cane e la scimmia, vi uccideremo a morsi e vi sbraneremo!»

Gli orchi guardarono verso l’alto e vedendo solo un fagiano, risero e dissero:

«Questo sì che è un fagiano feroce! È buffo sentire parole simili da una mezza calzetta come te. Aspetta di beccarti un colpo da una delle nostre clave di ferro!»

Gli orchi erano proprio arrabbiati. Scossero ferocemente le corna e i capelli rossi, e corsero a indossare pantaloni di pelle di tigre per avere un aspetto ancora più terribile. Poi afferrarono delle grandi clave di ferro e corsero verso il punto in cui era appollaiato il fagiano, cercando di colpirlo. Il fagiano volò di lato per sfuggire ai colpi, poi attaccò alla testa gli orchi uno dopo l’altro. Volava tutto intorno a loro, battendo l’aria con le ali con decisione e senza mai fermarsi, tanto che gli orchi a un certo punto cominciarono a chiedersi se stavano combattendo contro un solo uccello o contro tanti.

Nel frattempo Momotaro aveva raggiunto la terraferma con la sua nave. Mentre si stava avvicinando aveva visto che la spiaggia era a strapiombo e che il grande castello era circondato da alte mura ed enormi cancelli di ferro, oltre a essere ben fortificato.

Momotaro scese a terra e, nella speranza di trovare una via di accesso, cominciò a salire lungo il sentiero, seguito dalla scimmia e dal cane. Ben presto arrivarono vicino a due belle ragazze che stavano lavando dei panni in un ruscello. Momotaro notò che i panni erano macchiati di sangue e che le lacrime solcavano le guance delle ragazze intente a lavare. Si fermò e disse loro:

«Chi siete e perché piangete?»

«Siamo schiave del Re degli Orchi. Ci ha rapite dalle nostre case e ci ha portate in questa isola, e anche se siamo le figlie di un Daimio [Nobile], siamo obbligate a fare le serve, e un giorno o l’altro ci ucciderà», risposero le ragazze raccogliendo i panni macchiati di sangue, «e ci mangerà, e non c’è nessuno che ci aiuti».

E le lacrime sgorgarono di nuovo a questo orribile pensiero.

«Io vi salverò», disse Momotaro. «Non piangete più, mostratemi solo come posso entrare nel castello».

Allora le due ragazze s’incamminarono e mostrarono a Momotaro una piccola porta di servizio nella parte più bassa del muro del castello, tanto piccola che Momotaro poté strisciare a fatica attraverso di essa.

Il fagiano, che per tutto questo tempo aveva lottato duramente, vide Momotaro e la sua piccola pattuglia andare all’assalto passando dal retro.

L’attacco di Momotaro fu così violento che gli orchi non poterono resistergli. All’inizio il loro nemico era stato un solo uccello, il fagiano, ma adesso che era arrivato Momotaro insieme al cane e alla scimmia erano confusi, perché quei quattro nemici combattevano come se fossero cento, tanto erano forti.

Alcuni degli orchi caddero fuori dal parapetto del castello e si sfracellarono sulle rocce sottostanti, altri precipitarono in mare e affogarono, molti furono colpiti a morte dai tre.

Alla fine il capo degli orchi fu l’unico superstite e decise di arrendersi, perché si rendeva conto che il suo nemico era più forte di qualsiasi comune mortale.

Si avvicinò umilmente a Momotaro e gettò a terra la sua clava di ferro, poi s’inginocchiò ai piedi del vincitore e spezzò le corna che aveva in fronte in segno di sottomissione, perché le corna erano il simbolo della sua forza e del suo potere.

«Ho paura di te», disse umilmente. «Non posso resistere contro di te. Ti darò tutti i tesori nascosti in questo castello, se mi risparmierai la vita!»

Momotaro rise.

«Non fa parte del tuo carattere implorare pietà, vero? Non posso risparmiare la tua vita malvagia per quanto tu mi supplichi, perché hai ucciso e torturato tanta gente e hai depredato per molti anni il nostro paese».

Poi Momotaro legò il capo degli orchi e lo affidò alla scimmia. Ciò fatto, si recò in tutte le stanze del castello e liberò i prigionieri, quindi radunò tutti i tesori che trovò.

Il cane e il fagiano portarono in patria il bottino, e Momotaro fece ritorno trionfalmente recando prigioniero il capo degli orchi.

Le due infelici ragazze, figlie del Daimio, e altre persone che l’orco malvagio aveva rapito per farle schiave, furono riportate sane e salve alle loro case e riconsegnate ai genitori.

Tutti acclamarono Momotaro come eroe e si rallegrarono che il paese fosse stato liberato dagli orchi che lo avevano terrorizzato per tanto tempo.

La gioia dei due vecchi fu ancora più grande, e il tesoro che Momotaro aveva portato a casa con sé permise di vivere in pace e abbondanza fino alla fine dei loro giorni.

FINE

 

PANDA STUDIO

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