Sanji e la vera cucina dei pirati

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Sanji è uno di quei personaggi che Oda si è inventato di sana pianta, senza attingere a nessun nome famoso. Sì ok, per l’aspetto fisico si è ispirato a Steve Buscemi (de Le Iene) ma finisce qua. Nessun pirata famoso dietro, nessun corsaro, nessun personaggio storico. Non ha nulla a che fare nemmeno con il più famoso cuoco di bordo di tutti i tempi, John Long Silver. Sanji è Sanji.

Sanji e la dura realtà dei cuochi pirata

Detto questo, Sanji rispecchia un minimo la realtà dei cuochi pirata? Beh, no. Anche se un filo filo di verità c’è. Perchè i pirati non mangiavano proprio malissimo. Ma questo lo vediamo dopo. In una nave pirata, la cucina era di solito riservata a uomini mutilati, senza una gamba, senza un occhio o senza un braccio. Silver ne è un esempio classico e assolutamente realistico. Questo naturalmente non implicava che fossero bravi nel loro lavoro e infatti, spesso e volentieri, rifilavano della sbobba allucinante ai loro compagni. Ma non erano solo i mutilati a ricoprire questo ruolo, che veniva spesso affidato anche ad africani o a membri delle popolazioni caraibiche. Per un motivo ben preciso.

Come mangiavano i pirati?

I pirati non mangiavano i manicaretti che vediamo preparare con solerzia da Sanji, non avevano neanche lontanamente la sua cura e le sue esigenze estetiche. Eppure, mangiavano comunque molto meglio degli equipaggi di una nave della marina militare o di un mercantile, capitano e ufficiali esclusi (quelli si trattavano bene). Marinai “normali” e coloni, sembravano non apprezzare particolarmente i prodotti freschi autoctoni dei Caraibi. Pesce, crostacei, frutta e verdura locali venivano abbastanza schifati dai delicati palati europei. Un po’ perché si consideravano troppo raffinati per mangiare lo stesso cibo che schiaffavano agli schiavi, un po’ perché venivano puntualmente ostacolati da quei menagrami della madrepatria: la Spagna, per esempio, vietava la coltivazione di frutta e verdura caraibiche e pretendeva che i coloni consumassero solo prodotti importati dall’Europa. I cibi locali agli schiavi (rum compreso), mentre loro si ciucciavano carne salata e merluzzi che avevano fatto mezzo giro del mondo, stantii, dal sapore terribile e spesso pieni di vermi. Bei furbi vero? Eh sì, perché in questo modo, oltre a ostacolare di brutto la collaborazione tra popolazioni, di fatto incentivarono le linee di contrabbando, di furto e di pirateria.

Boucan

Pirates eat meat di R. Embledon

I pirati invece non si facevano alcuno scrupolo in merito. Dovendosi accontentare di quello che passava il convento, le bande di bucanieri impararono ben presto a preparare i pasti da africani e nativi americani che avevano ben più dimestichezza di loro. Utilizzavano al massimo le risorse locali per assicurarsi prodotti freschi, impararono a pescare con le tecniche degli indiani miskito e ad arrostire la carne dei maiali selvatici di Hispaniola su delle grandi graticole, dette boucan*. Da qui la parola bucaniere. E da qui anche la parola barbecue. Già.

Meglio dei coloni

sanjiIn pochissimo tempo, i pirati si seppero adattare molto meglio dei coloni all’ambiente caraibico, e fecero tesoro delle conoscenze dei veri abitanti delle isole che spesso (soprattutto i miskito) venivano reclutati nelle navi pirata per le loro straordinarie abilità di caccia e pesca. Bastavano uno o due di questi uomini per assicurare a tutta la ciurma carne e pesce fresco. Pare inoltre che in cucina fossero particolarmente considerate le abilità culinarie degli africani che sapevano perfettamente come trattare certe materie prime per tirarne fuori dei pasti perlomeno accettabili. Fatto interessante: la moderna cucina dei Caraibi ebbe origine proprio dalle mescolanze culinarie di pirati e filibustieri che mescolavano insieme prodotti europei e non, con tecniche africane e caraibiche. E quindi sì, i pirati mangiavano molto meglio di molti all’epoca. Non a livello dei pirati di Cappello di Paglia, ma almeno ci provavano.

*la parola boucan in realtà indica sia il metodo di cottura (fondamentalmente alla griglia) che la graticola stessa.

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Bibliografia

  • D. Defoe, Storie di pirati. Da Barbanera alle donne corsaro, tr. it. M. Carpitella, Mondandori, Cles, 2004;
  • Le Bris, La cucina della filibusta. Il vero tesoro dei pirati caraibici, tr. it. L. Cortese, Elèuthera, Cremona, 2010;
  • Spinelli, La cucina dei pirati. Marosi, amaretti, marasche e mariuoli, Fernandel, Ravenna, 2009;
  • Spinelli, Tra l’inferno e il mare. Breve storia economica e sociale della pirateria, Fernandel, Ravenna, 2003.

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